Le condizioni di insoddisfazione in cui siamo immersi

In che modo questa è una bella serata per te?
Una giornata speciale, vero? Sì, e suppongo che tu stia riflettendo su questo da un po’.
Probabilmente hai ascoltato molti discorsi e condividi questa situazione già da un po’.
Di certo provi qualche sentimento al riguardo, ti stimola e ti interessa e ti fornisce dei chiarimenti, e probabilmente ne ascolterai ancora molti altri di discorsi.
E onestamente io non so davvero cosa dire adesso. Vorrei solo ribadire alcuni dei punti e degli aspetti che Ajahn Amaro ha evidenziato riguardo a questo tema.
Riguardo al fatto che questa è effettivamente un’occasione per tutti noi.
È un’occasione per tutti noi. Perchè abbiamo questa occasione? Perché siamo qui tutti insieme, ed è davvero un’importante opportunità per essere sinceri e condividere mentre ascoltiamo due persone, sia che si tratti di uomini o donne, prendere una posizione in pubblico in modo chiaro e trasparente. C’è qualcosa in questo che risveglia il nostro senso di rispetto.
Mettersi in gioco in prima persona, questo è quello che sto facendo; percorrendo questa strada formale.
Prostrarsi. Questo non è un gesto da prendere alla leggera. E tu sai che questo è l’inizio, è l’accesso.
Quindi qui viene presentato qualcosa di sincero e con una certa forza, e questo fa sì che in ognuno di noi, qualunque frase verrà pronunciata, possa risuonare la sensazione che questa sia un’occasione.
Ci sono motivi che spingono le persone a fare affermazioni forti per mettersi alla prova, per mettere da parte il quotidiano, il conosciuto, qualsiasi cosa stiano facendo.
È come se stessero accantonando molto di ciò che normalmente dà forma ad una situazione domestica, il loro lavoro, le loro capacità, ciò in qualche modo li fa sentire di essere nel loro.
Credo che uno dei precetti non espressi sia che qui veniamo veramente a servire il Sangha. È un luogo in cui, come suggeriva Ajahn Amaro, non siamo nel nostro.
E se viviamo in qualsiasi posto, se abbiamo un senso di questo è mio, è in gioco la mia libertà di scelta.
Voglio fare questo, voglio mangiare qualcosa, e lo farò. Se posso, quindi se ho la capacità, se voglio attivare qualcosa, lo farò. Voglio restare a letto stasera, lo farò.
Sai, è la mia vita. E non lo è? Certo, è la tua vita? Sì. Ma lo è? E’ il tuo stile di vita, è il modo in cui tutti siamo cresciuti, in vari gradi di apparente libertà.
E, credo che tutti noi siamo stati ben nutriti. Tutti noi abbiamo potuto acquisire la capacità di guadagnarci da vivere e ricevuto un’istruzione. E inoltre, nei nostri anni da adolescenti e da ventenni, abbiamo potuto iniziare a sperimentare dove volevamo andare, con chi volevamo trascorrere del tempo, cosa fare e anche viaggiare.
C’erano molte opportunità e potevamo scegliere partner e occasioni. Le abbiamo lasciate andare. In realtà, le abbiamo lasciate perché non ci portavano abbastanza lontano. Non era per mancanza di forza di volontà o di interesse, solo non ci stavano portando lontano abbastanza.
Non mi stavano portando dove desideravo andare. Questo non significa che io odi le case o disprezzi chi ha un lavoro o guardi dall’alto in basso chi è sposato. Va bene, ma così non andavo abbastanza lontano. Avevo la sensazione che qualcos’altro stesse cominciando a chiamarmi.
Nel senso che c’è una chiamata, religiosa e spirituale. C’è una chiamata, che non ha che fare con le cose che di solito danno forma alle nostre vite e sulle quali, in modo convenzionale, investiamo molto: i soldi, il piacere dei sensi, divertimenti, ristoranti, moda, stili, cose a cui diamo molto credito. Progresso, un buon lavoro, una promozione, cose per cui le persone sono pronte a combattere e lottare.
E’ qualcosa d’altro che comincia a sussurrare o a chiamare con una voce più forte di tutto il resto.
Questo può succedere, se non ti dispiace che lo dica, a persone comuni, proprio come noi. E’ davvero qualcosa a cui prestare attenzione e da tenere a mente per non perdere quel senso di chiamata, quel qualcosa da indagare, per accedere a qualcosa.
Dov’è? La chiamano fede. Non significa credere in qualcosa.
Infatti, per come la penso io, sì, potremmo dire che la nostra casa è a Oxford o a Berlino o ovunque, ma in realtà non è proprio così.
Se la consideriamo in maniera più ampia, tutte le nostre abitazioni si trovano nel mondo della coscienza sensoriale: vista, suono, tatto, udito, odori e fragranze. E la mente misuratrice, quella che analizza, pianifica, forma opinioni, è dogmatica e crede che è lì che abbiamo vissuto.
Abbiamo appena cambiato i mobili e cambiato luogo geografico. Ma in realtà, dove vivevamo, dove abbiamo sistemato la nostra casa, è in questa cascata di coscienza.
Cosa altro c’è lì? La vista, il tatto, le immagini, i suoni, le fragranze, i sapori, il toccare, e soprattutto, la mente che pensa e misura, che si muove in mezzo agli altri, giudicando, confrontando e contrastando, e che riflette su se stessa, sui propri pensieri, sulle proprie idee e sulle proprie psicologie, immergendosi profondamente in tutto ciò.
E c’è qualcosa di questo che diventa molto pesante. Infatti, ci sentiamo preoccupati per questo.
E tutta questa preoccupazione diventa come il mio territorio, il mio mondo.
Poi ci rendiamo conto che ci sono altre persone e che il mio mondo non è affatto lo stesso mondo di lui o di lei, e si creano conflitti, delusioni, frustrazioni.
E il mio mondo non è tra l’altro così comodo. È come se dovessi sempre tenerlo in piedi. C’è sempre qualcos’altro da fare, qualcos’altro da possedere, qualcosa su cui lavorare, e qualcos’altro a cui pensare.
Ha sempre bisogno di più nutrimento e le scorte di cibo cominciano a perdere sapore, diventano piuttosto insipide.
Ne abbiamo abbastanza di pensare a noi stessi.
Abbiamo ascoltato le opinioni altrui, abbiamo confrontato le nostre con quelle degli altri.
Il mondo è invaso da dogmi, mezzi di comunicazione, chiacchiere, chat, stanze in chat, e la gente chiacchiera, chiacchiera. Ci sono opinioni su questo e su quello, di destra, di sinistra, di mezzo, da sopra, da sotto; insomma, un gran blaterare.
Questo continua a girare a girare. E poi, come agisce la tua opinione su te stesso?
Che cosa dovresti fare, cosa non sei, cosa sei, come sono gli altri. Alla fine diventa tutto molto denso e si comincia ad avere la sensazione che sia tutto un groviglio. E’ un groviglio.
E ciò che chiamo la chiamata non è certamente un suono. È una sensazione che emerge e dice: voglio uscire da questo. Ne ho avuto abbastanza. Voglio trovare una via di uscita da questo groviglio.
Anche se sono stato nutrito, non sono stato maltrattato., ho una macchina, un appartamento o un partner, e pur avendo una situazione accettabile nella vita rispetto ad altre persone, non riesco comunque a essere soddisfatto. Tutto questo non mi porta da nessuna parte che possa rendere la mia vita luminosa, chiara e sicura.
Così, qualcosa inizia a prendere forma e questo è un segno di fede, un concetto che dovremmo sempre tenere a mente.
La nostra tendenza è quella di voler addomesticare tutto, di renderlo mio, in vari ambiti. Il modo in cui gli esseri umani e le società umane e la coscienza funzionano è cercare di addomesticare, rendere familiari, tenere le cose a posto, misurate, conosciute.

Quindi la natura di questa chiamata interiore è potente: il Buddha ha affermato che la radice di tutto ciò risiede in una condizione fondamentale, non si tratta di credere in qualcosa di definito, ma quello che lui chiama dukkha è quando le cose non tornano, non si incastrano, non funzionano come dovrebbero.
Ci deve essere qualcosa di più di questo; non so dove sia né come sia, ma ci deve essere qualcosa di più, voglio qualcosa di più., proviamo.
Da dove viene questa chiamata, dove può condurci?
Forse è qui che iniziamo a riconoscere che c’è qualcosa di più qui, una certa sensazione di io sono, di esistere, che non è un pensiero, né qualcosa che può appartenermi; è una sensazione, una sensazione non legata alla vista o a cose simili.
E si chiama chitta; non è davvero una cosa, ma piuttosto una sensazione.
È come dire, per esempio, l’intelligenza, è davvero una cosa? La felicità è una cosa?
Chitta puoi chiamarla cosa, ma in realtà si tratta di una qualità immateriale che ci permette di rivedere, percepire e avere una prospettiva su ciò che ci portano i sei sensi. È questo che ci ha consentito di riconoscere queste cose.
Va bene, ma ha dei limiti, ed è questa qualità, questa caratteristica, questa capacità, questo Io, se vuoi, questo cuore, questo aspetto della mente che mi dice che voglio liberarmi da tutto ciò. Questa non è la mia vera casa.
Questa non è la mia vera casa. Qui ci sono gli edifici, i vestiti, il nome sul passaporto, ma non è la mia vera casa. C’è qualcosa di più profondo. Perché non è una vera casa? Perché se fosse davvero una casa, non avrei bisogno di aggrapparmi a essa.
E ciò che iniziamo a capire quando facciamo un passo indietro dal credere a ciò che vediamo, sentiamo o pensiamo, è semplicemente notare: questo è udito, questa è vista, questo è un suono, questo è un pensiero. Questo è un sentimento di agitazione, questo è un sentimento di delusione, questo è un sentimento di irritazione, questo è un sentimento di gioia.
Facciamo un passo indietro. Notiamo questa qualità, consapevolezza, questo impulso a trattenere un’idea, una convinzione, un luogo, qualcosa, un atteggiamento o una qualità.
Abbiamo visto che tutto questo è ciò che succede agli esseri umani ed è legato alla sicurezza, giusto?
Allora, cerchiamo di avere una bella casa, una casa solida, e assicuriamoci che nessuno possa entrarvi: mettiamo le serrature, i lucchetti, costruiamo un cancello, mettiamo una guardia.
Quanto è necessario aggrapparsi per mantenere la propria casa sicura? E poi, va bene, ripariamo le finestre, ripariamo il tetto, perché il maltempo non entri, uccidiamo i ratti che stanno invadendo, sistemiamo l’impianto elettrico che si è rotto.
Quanto è necessario aggrapparsi per avere una casa sicura, e quando è veramente sicura? Quando èveramente libera da rotture e invasioni? Quando può davvero dirsi libera?
E il lavoro, quando è davvero sicuro? Posso essere licenziato, perdere il salario e così via.
Quando una relazione è davvero sicura? Le persone possono allontanarsi, perdere il contatto con noi, epassare dal sentirsi affettuosi a non esserlo più. Quanto può essere sicura una situazione del genere? E quanto è necessario aggrapparsi e tenersi per cercare di rendere queste situazioni sicure?
Quante credenze possono rimanere in piedi autonomamente, se non le ribadiamo con fervore, aderiamo ad esse e ne discutiamo con gli altri?
Quante si manifestano e si rivelano a noi, se non le interpretiamo e ne traiamo delle conclusioni?
Quante verità ci sono che ci guardano in faccia già rivelate? Non hai bisogno di continuare a convincerti.
Ormai, questa tendenza ad aggrapparci è così radicata in noi che quasi non ce ne rendiamo conto. Suona così duro dirlo.

Ma se guardi attorno a te, noti come le persone trovino sicurezza nell’appartenere ai tifosi di una squadra di calcio. Questo fa parte della loro identità. Hanno le coccarde, conoscono le canzoni, sanno tutto sulle squadre, hanno i tamburi e sono carichi di entusiasmo.
Siamo così. Io appartengo a questo. Quanto impegno ci vuole per sentire di appartenere a questo luogo e a qualcosa? E se tutto questo venisse meno, cosa accadrebbe? È molto triste, perché in diversi casi, molti uomini che lavoravano e che hanno perso il lavoro o sono andati in pensione non sapevano più cosa fare della propria vita.
Alcuni bevono, alcuni si sono addirittura suicidati, altri hanno semplicemente cominciato ad ubriacarsi e si sono spenti perché hanno perso ogni senso di scopo. Sono stati licenziati o avevano 65 o 70 anni, ormai a fine corsa, e allora cosa si fa? Tutta la tua vita è costruita su questo e può essere che alla fine ti dicono “grazie, basta così”.
Quindi, dove sei? Che cosa hai come rifugio quando tutto ciò crolla? Quanto sei al sicuro? Di fronte a questa domanda, quanta gratificazione è disponibile? Senza dover cercare sempre altro o qualcosa di migliore la settimana prossima, quanto di questi bisogni umani fondamentali sono realmente soddisfatti a questo livello?
Dobbiamo dire no, che senza aggrapparsi non lo sono. Quando mi aggrappo a qualcosa, mi sento teso, tengo duro, trovo paura e ansia per la possibilità di perdere ciò a cui tengo. E, sai, la mia identità si stabilizza sulla realtà a cui mi tengo stretto.
Se questo accade, mi sento davvero insicuro. E la cosa strana è che ciò che chiamiamo sicuro ci rende ancora più insicuri, perché ci aggrappiamo a cose che alla fine non possono sostenerci. E così perdiamo qualcos’altro che invece potrebbe farlo.
E questo è, ovviamente, ciò che una persona non sa perchè non le è stato insegnato . Nessuno glielo ha mai detto, non lo può capire. C’è qualcosa d’altro che può darti supporto.
Anche se non hai ottenuto un lavoro prestigioso, anche se non hai soldi, anche se non hai svaghi, anche se non possiedi una grande casa, anche se non hai queste cose, ti sentirai comunque più al sicuro.
Dal punto di vista del nostro mondo, questo non ha senso. E non significa semplicemente diventare un nomade che dorme sotto un ponte, perché quella sicurezza non si manifesta facilmente senza un notevole sforzo di crescita, di purificazione e liberazione e senza rafforzare le proprietà di questa esperienza, la consapevolezza, chitta, senza consolidarla fino a farla diventare un rifugio.
Il Buddha ha detto che questo è il rifugio, non c’è un altro rifugio. E chitta è profondamente influenzata essa stessa dalla paura e dall’insicurezza.
Bisogna addestrarla, bisogna renderla luminosa e bisogna prendersene cura. Il Buddha diceva che se questa non viene coltivata, non c’è modo per gli esseri umani di liberarsi dalla paura. Solo se c’è una vera e propria crescita altrimenti, saremo sempre in bilico, chiedendoci: “Cosa succederebbe se perdessi tutto questo? E se ciò andasse via?”
Assicurati di coltivare un po’ di questo. E poi: “Cosa pensano gli altri di me? Sto andando bene? Sono una persona piacevole o spiacevole? Sono ben accolto o non sono ben accolto?” Continueremo a fare così.
La mente analitica correrà da ogni parte cercando di mettere insieme i complimenti, le colpe, l’accoglienza, le opinioni, lo status e così via, e si chiederà: “Chi sta ottenendo qualcosa più di me? Lui sta facendo un affare migliore del mio. Cosa c’è che non va?”
Questo tipo di cose continuerà ad accadere. Quindi, innanzitutto, dobbiamo addestrare e iniziare a purificare chitta dagli effetti della mente analitica, che è sempre intenta a misurare me stesso, gli altri, il successo, il fallimento, a pianificare il futuro, a ricordare il passato e, in generale, a lottare cercando qualcosa a cui aggrapparsi.
Non c’è un vero senso di sicurezza se non siamo liberi da questo, se non siamo indipendenti. E questa forma di indipendenza merita il sacrificio. Il sacrificio rende l’occasione solenne, la arricchisce e le conferisce forza.
E senza quella determinazione e solennità, è solo un’idea. Ognuno di noi potrebbe avere idee su cosa significhi essere un monaco, una suora o qualcosa del genere. È bello, sereno, sempre con le gambe ben incrociate, le mani nel loto, ed emana una luce.
È un’ottima idea. Non ho mai incontrato nessuno che sia riuscito a durare a lungo in questo training e che si sia attaccato a quell’idea. Si tratta soprattutto di sacrificio, impegno e determinazione, di rimanere fermi in questo. Perché è proprio questo che ci rende forti.
E questa è una forza, non quella di avere ciò che desidero, ma la forza di rimanere solidi quando non riesco ad avere ciò che voglio, è una forza ben superiore. Tutti si sentono bene quando ottengono ciò che desiderano.
Ma quando questo non accade, iniziamo a sentirci agitati, e pensiamo “Non è giusto, non capisco perché lei si comporti in questo modo, e lì non ci voglio andare”. Pertanto, c’è bisogno di coltivare un’indipendenza dalla mente che misura.
Non è una cosa da poco, e richiede solennità, adhitthana cioè determinazione e un atto di fede, dicendo: “Bene, farò questo per un po’”.
Perchè rispetto alle convenzioni bisogna essere molto pragmatici.
Il Buddha era un pragmatico. Si tratta di sacrificio, ma non di mortificazione. Non si tratta di mettere a dura prova il proprio corpo. Non riguarda lo sforzo eccessivo. È semplicemente una dolce e costante rinuncia che viene incoraggiata. Riconoscere l’attaccamento e allentare un po’, concedersi un po’ di pausa.
Nella mia esperienza personale, nella mia vita ho avuto la certezza, ho capito che non stava funzionando.
Anche se stavo spuntando tutte le caselle di ciò che dovrebbe essere interessante e divertente, non stava funzionando.
E poi c’è quella sensazione di una certa desolazione, arrivato al punto di aver provato tutto senza che funzioni. Cosa faccio? Cosa ho davanti?
Mi capita una di queste sessioni di meditazione, che pensavo potesse valere la pena provare. E sono solo 15 minuti, solo meditare per 15 minuti. Sembra facile. Solo 15 minuti, stai lì, prendila alla leggera, devi solo stare con il tuo respiro. Ok, non sono riuscito nemmeno a seguire un respiro, giravo dappertutto.
Ma potrei riconoscere che c’era qualcosa in grado di osservare la mia mente che si comportava come una scimmia pazza. Che cosa è che può sapere che la mia mente è pazza? Questa era la mia grande domanda: come posso capire che la mia mente pensante, la mia mente analitica, è pazza?
Questa non è una pazzia. Sta dicendo la verità. Che cos’è? Questa è chiaramente ciò che si chiama consapevolezza, chitta. Bene, ho bisogno di farlo e ho bisogno di incoraggiamento e supporto per mantenere fuori dalla mia strada la mente analitica e i suoi desideri, legarli e tenerli a bada.
Quindi troverò un monastero, e non avrò più così tanto impatto dai sensi e così tante decisioni da prendere.
L’avevo appena fatto e ovviamente era solo un test. Staccare la spina. Insomma, probabilmente ci sarei stato per un paio di settimane, e sapevo che era solo per un paio di settimane. Non era abbastanza. Sentivo che c’era qualcosa, qualcosa che si muoveva, qualcosa che sorgeva.
Ho lasciato il monastero perché dovevo partire, ero in Thailandia e dovevo uscire dal paese per avere un nuovo visto, ero fuori e avrei passato un paio di mesi a viaggiare in Malesia e Indonesia. E mi sono reso conto che ovunque andassi, tutto ciò che desideravo era sedermi e meditare.

E quella non era forza, era semplicemente come se il resto non esistesse. Ho mantenuto gli otto precetti, non perché dovessi seguire un punto di vista fondamentalista, ma perché avevo semplicemente raggiunto il limite. Ho pensato: resta su questo, rende tutto più semplice.
Così ho seguito gli otto precetti, praticando la meditazione, e poi sono andato in tutti quei posti meravigliosi e sembravano tutte vecchie storie, fino ad arrivare a Bali. A Bali c’erano tantissime persone che si divertivano, fumavano marijuana e sfrecciavano su e giù per le spiagge in moto.
Tutto ciò che io desideravo era camminare consapevolmente avanti e indietro e meditare; non aveva senso stare lì, c’erano solo feste sulla spiaggia e simili.
Volevo solo sentire l’alzarsi ed abbassarsi dell’addome. Ok, il gioco è finito. Torna al monastero, le chiamate erano diventate piuttosto forti, e metti da parte tutto questo.
E poi, cosa stai facendo, perché stai facendo questo? Dillo alla tua famiglia. Beh, lo farò solo per un po’, è interessante. Tre mesi dovrebbero bastare.
Non era possibile diventare anagarika nel posto in cui mi trovavo, quindi sono diventato samanera. Pensai che l’avrei fatto per un po’; tre mesi poteva andare bene, sei mesi potevano andare bene. Dopo sei mesi, questo vecchio pensiero che sei mesi dovessero bastare è andato via.
Ho pensato: smettila di pensarci e fidati del processo, perché la mente razionale non riesce a capire cosa sta succedendo, da dove tutto questo proviene, e tutte le misurazioni che ho fatto non stanno funzionando, quindi fidati del processo.
Ecco cosa consiglio, di essenziale e semplice. Qualcosa vuole fare questo, qualcosa che vuole risvegliarsi.
Nessuno dice che devi fare questo per il resto della tua vita.
Nessuno dice una cosa del genere. Nessuno dice che dovresti diventare un monaco. Assolutamente no.
Perché non sta a me dirlo. È qualcosa di troppo sacro. Non è mio compito dire a nessuno cosa fare. E qualcosa di sacro. E viene da quella chiamata e tu la ascolti. Perché le sfide che si presentano sono molteplici e provengono da ogni direzione.
Nel buddismo, abbiamo un concetto conosciuto come la moltitudine di Mara, che rappresenta una sorta di icona. Mara, in effetti, può essere paragonato a una forma di Satana, una forza seducente.
L’insieme delle diverse qualità di Mara: passione, noia, letargia, dubbio, preoccupazione, agitazione, lamentela, amarezza e altre cose simili. Capisci, questa è l’immagine e assume tutti i tipi di forme subdole.
E molte sembrano essere me. Arrivano e dicono: “Cosa ci fai qui? Con questo mucchio di fannulloni, non vuoi sprecare la tua vita qui?!” Sembra che utilizzi la mia voce e mi parli all’orecchio.
E dice: “Sai, dopotutto hai fatto un buon lavoro; sei mesi dovrebbero bastare, cosa stai cercando di dimostrare? C’è un modo più rapido per farlo. Non è necessario tutta questa dolorosa rinuncia. Puoi semplicemente iscriverti a un corso di sei settimane con un guru così e così e lui ti guida sulla strada del diamante. Facile, vero? Devi solo pagare. Non è necessario affrontare tutte queste cose dolorose”
E tu ascolti: qual è il messaggio dietro a tutto questo? Ci passi attraverso, ti aggrappi e ti tieni a qualcosa; questo è il messaggio che ricevi. Perché Mara continuerà a tornare nella tua mente, quindi alla fine ti abituerai. Senti queste voci che suonano come fossero me, alcune hanno una certa qualità stridente: alcune sembrano venditori di auto usate, sai:” Vuoi uno di questi? Ho un affare ottimo qui”. Alcune voci sono più petulanti: “Non vedo perché dovrei farlo”.
Ci sono tutti i tipi di voci, e alla fine le ascolti tutte; qual è la loro qualità comune? Tutte spingono, tutte chiedono, tutte insistono e tutte dicono: afferra e tieniti a qualcosa, afferra e tieniti a te stesso. E come puoi aggrapparti e tenerti a te stesso?
Cosa è questo sé a cui ci si dovrebbe aggrappare e tenere? E come ci si sente ad aggrapparsi? Cominci a focalizzare tutto questo: questa presa, questa febbre, questo tendere la mano per afferrare e tenersi a qualcosa.
Beh, qualunque cosa sia, aggrapparsi è scomodo, ripugnante e insoddisfacente. Cosa si rivelerebbe se io non mi aggrappassi a qualcosa? Ora, una delle risorse principali che abbiamo tutti, che molti di noi tendono a trascurare, è il nostro corpo.
Ancora una volta, questo è un tema ricorrente nella vita del Buddha. Inizialmente, ha cercato di trascendere il suo corpo attraverso stati immateriali, come le trances yogiche, e contemporaneamente ha praticato la mortificazione del corpo, del corpo fisico.
Questo è il corpo, questa massa di carne e ossa destinata alla morte, all’impurità, alla malattia, alla decomposizione, alla sensualità; bisogna solo liberarsi da tutto ciò. E questa era la ricerca in cui si trovava.
Ma questo non porta da nessuna parte, perché vuol dire aggrapparsi ad una visione specifica del corpo e dell’obiettivo: l’obiettivo è non avere un corpo.
Quindi, se non abbiamo questo obiettivo, cosa si rivela? Beh, qui c’è un corpo. C’è qualcosa qui, e cosa rivela il corpo di per sé?
Il corpo stesso non è né visto né sentito, ha una sua sensibilità, ed è duplice: abbiamo un senso tattile, che riguarda l’essere toccato dalle cose esterne; ma molto spesso c’è molto spazio intorno al senso tattile perchè non stiamo toccando nulla.
C’è poi un senso rivolto all’interno che riguarda cose come il sentirsi tesi, rilassati, eccitati, arrabbiati, malati: nel corpo inizia tutto questo, proprio qui inizia il mio mondo; ed è in questo che noi viaggiamo, viviamo con questo fino alla fine.
Ed anche questa è una frase piuttosto misteriosa ed enigmatica, ma basta praticare la respirazione, sentire l’energia del respiro che fluisce nel tuo corpo, come il tuo corpo si illumina quando inspiri e si calma quando espiri, che è la base della meditazione.
Quella qualità di illuminarsi e affievolirsi non è in senso fisico, ma in senso energetico quando ti sintonizzi su questo. E cò diventare molto chiaro e durare finché sei vivo, è sempre lì.
E in questo hai qualcosa che non ti abbandonerà mai finché sei in vita. E funziona come un rifugio interiore. Perchè non solo è sempre presente; è anche un modo per contemplare le nostre emozioni e i nostri pensieri senza lasciarci sopraffare e senza combatterli.
Perché, come ho già detto, emozioni come la preoccupazione e la rabbia le sentiamo nel corpo: la rabbia ci fa arrossire in viso, la paura ci provoca crampi allo stomaco, l’eccitazione ci fa battere il cuore.
E quando parliamo del pensiero, diciamo che qualcuno che pensa vive solo nella sua testa.
Ecco una frase piuttosto comune: pensi che lui sia perso nei suoi pensieri, è una persona che vive nella sua testa. Perché viviamo nella nostra testa? E perché lo associamo al pensare? Perché tutti i muscoli sottili intorno al viso e alla testa iniziano a attivarsi quando pensiamo.
Quindi, quando vivi nella tua testa, il resto del tuo corpo sembra scomparire e ti ritrovi a pensare tantissimo, accompagnato da una sensazione di grande energia che risale nella testa. Quando pensi molto, percepisci questa energia nella tua testa e inizi a prenderne consapevolezza e portando la tua attenzione sul respiro e scendendo persino fino ai piedi e alle gambe, riesci a liberarti dell’energia legata al pensiero compulsivo.
È una cosa importante da ricordare, perché tutte quelle forme di contatto che possono suscitare emozioni, stimolare, deludere o eccitare comportano possibilità di afferrare: il pensiero è il re e il leader. E agirà. Sarà in grado di produrre risultati in un attimo.
Farà proliferare infiniti scenari del mio mondo e grandi pantomime degli altri. “Lei è una di queste persone, lui è quell’altro, lei non è mai cosi, lui è sempre così”. Tutto questo.
E diventa uno dei nostri principali focus e addestramenti come riconoscere questa mente pensante, la sua tendenza a proliferare, e rendersi conto che è da ciò che dobbiamo liberarci, e che c’è un modo per farlo.

E questo modo è fornito e supportato dalla presenza del corpo, che non prolifera. Senza futuro né un passato, non si stabiliscono né l’io nè il mio. È la vita che si stabilisce. Troviamo rifugio, ed è piuttosto interessante, nella vita stessa, finché questa vita dura.
Certo, questo non è il risultato finale, ma è uno strumento estremamente utile con il quale chitta riceve supporto per stabilizzarsi attraverso questa presenza, senza provare paura o panico.
E l’attitudine alla consapevolezza e la capacità di essere ricettivi, sintonizzati e distaccati, ci purifica da queste influenze.
E’ qualcosa su cui devi semplicemente esercitarti, nel corpo, con quell’energia nel corpo che ha una qualità di presenza e che ti tiene radicato. Ti sintonizzi con questo attraverso la tua consapevolezza. Sei consapevole di questo. Da qui, puoi sempre percepire pensieri, suoni, immagini che si muovono attorno.
Puoi allontanarti da loro, puoi tornare da loro, ma non sei loro. Non stai cercando di evitarli o di rifiutarli, semplicemente non sei loro, perché la loro natura è quella di andare e venire. Sono imprevedibili e insicuri.
Ma tu l’hai capito. Perchè questa pratica, come diceva Ajahan, è imperniata sulla meditazione.
Sì, va bene, ma io vengo qui e pratico circa un’ora la mattina e magari un’ora e mezza la sera.
Se lo stiamo facendo, se stiamo meditando, perché non lo facciamo per tutto il giorno? Beh noi lo facciamo per tutto il giorno. Dovremmo farlo. Ma non siamo seduti in silenzio nella sala per tutto il giorno. No, questa è solo una forma di meditazione.
Questo è un modo per farlo. Ma l’idea è di praticarlo tutto il giorno. Che cosa intendo? Quello che intendo è coltivare consapevolezza e presenza, osservare come ci aggrappiamo, notare la mente che prolifera e tornare alla consapevolezza e alla presenza avendo chiaro su cosa vale la pena impegnarsi.
Ad esempio: sapete che c’è del lavoro da fare nelle cucine. Questo significa che ci sono quattro o cinque di voi, probabilmente con idee diverse, stati d’animo diversi e magari anche qualche opinione differente impegnati in cucina.
Va bene, interessante. Mentre state preparando il pasto, voi cinque, con opinioni diverse, trovate un accordo e dite: facciamolo così. Solo 45 minuti prima del pasto, arrivano un sacco di donatori con del cibo in più, entrano in cucina, ed è proprio lì che le cose diventano molto movimentate.
Quindi cosa farai al riguardo? Mantieni la tua presenza, resti con i piedi per terra, percepisci il desiderio di essere pacifico, tranquillo o stabile e ok non è più la stessa situazione ora. Consapevole di questo, cerca di mantenere la stabilità e la presenza, rilassati, vieni qui e cominciamo a capire come possiamo collaborare, lavorare insieme.
Questa è una pratica immensa, sai, proprio quando cadi in questo, la tua pratica, la tua meditazione consiste nel confrontarsi con quei punti in cui di solito ci aggrappiamo a qualcosa, ci affrettiamo o ci irrigidiamo, confrontare quei momenti in cui i riflessi cominciano ad attivarsi e, proprio in quel momento, accedere alla consapevolezza e alla presenza e “Ah, vediamo cosa possiamo fare”. Sì questa è la pratica.
Praticare significa guidare verso l’aeroporto, pensare di avere due buone ore per arrivarci, ma poi trovarsi in un ingorgo, e guardando l’orologio che scorre, tic, tic, tac. Penso, mm, interessante. Osservare i secondi e i minuti che scorrono, è interessante. Eccoci qui, insicurezze e incertezze. Non riesco a far accadere ciò che dovrebbe accadere.
Ah, la pratica. La pratica consiste nel prenderci cura di quel momento in cui cominciamo a capire di essere in situazioni che normalmente troveremmo esasperanti e difficili.
Credo che sia ora di riformulare. Perchè non cominci a comprendere che lì c’è la possibilità di sviluppare l’equanimità? Bene. È una possibilità per sviluppare la pazienza, bene. Piuttosto che: “ma doveva andare così, non posso aspettare” Pensare “Così non va bene”.

Quindi, queste straordinarie forze, pazienza, equanimità e risoluzione significano che torni costantemente al tuo punto fermo, che è stabile e si prenderà sempre cura di te e che potrai portare con te nella vita, fino alla morte e oltre.
Questa non è una piccola pratica, non è una piccola cosa. Chiunque la contatti e faccia uno sforzo in questa direzione merita rispetto. Chiunque ci provi merita un grande valore, è prezioso, e sta contribuendo enormemente a migliorare la condizione umana.
Gli altri stanno ancora cercando o non hanno ancora trovato una soluzione. Dobbiamo in un certo senso non solo prenderci cura di noi stessi, ma attraverso la nostra pratica attuale, affermiamo, non in modo egoico, che esiste un altro modo. Esiste un altro modo in cui gli esseri umani possono trovare soddisfazione.
Possa la nostra pratica crescere in questa disciplina di Dhamma, che Anagarika possano portare un po’ di luce agli esseri umani in un mondo in fiamme per l’avidità, l’odio e l’illusione.
Questo conferisce solennità alla nostra occasione, rendendola di valore. Auguro a tutti noi che possiamo prosperare, vivere e crescere in questo ambiente di impegno e disciplina del Dhamma. Vi auguro il meglio.

[Traduzione a cura di Silvia Ventriglia]