Discorso di Ajahn Sucitto
“Benevolenza: tornare a se stessi”
Newsletter Tracce di Dharma
17/05/2024
Abbiamo parlato di presenza incarnata, un tema ricorrente che ci porta davvero qui e che ci aiuta a capire quante impronte della nostra vita si manifestano nelle energie del corpo, nelle tensioni, sui nostri non-luoghi
corporei, nell’ impulsività, in certi modelli di ansia e di pressione, cose per cui non riusciamo nemmeno a trovare le parole. Ora ci rilassiamo e le lasciamo andare.
Un po’ di peso, che ci faceva stare stretti, scivola via ed improvvisamente sentiamo una maggiore apertura. Cos’è successo? In qualche modo, senza neppure saperlo, stavamo portando un carico di stress che non era causato dal lavoro fisico, ma da impressioni psicologiche ed emotive.
Di conseguenza credo che sia assolutamente necessario portare costantemente alla mente l’antidoto per tutto quello che ci accade. Un potente antidoto per queste nostre impressioni sono le qualità della benevolenza. L’empatia e’ una parola breve, eppure densa di significato. Il punto principale è che ciò che sperimentiamo, in qualunque modo si manifesti, sia contenuto in quella costante atmosfera in cui è possibile concedersi il permesso, senza che ciò implichi la totale approvazione.
La non-resistenza, la non-avversione sono la medicina che consente alle cose di cambiare da sole piuttosto che essere noi a cercare di cambiarle, e che fa sorgere la giusta atmosfera in cui continuare ad immergere la
consapevolezza. Si tratta della consapevolezza di che cosa sia il corpo, le impressioni corporee, gli stati mentali e che permette a quelle qualità di esprimersi. Proprio come un nervo contratto che si rilassa da solo se viene massaggiato correttamente. Non dobbiamo farlo noi, basta dare le giuste pressioni e qualcosa si scioglie. Nessuna parola lo potrà fare, per quanto vasta sia la nostra conoscenza delle parole.
Nessuna parola potrà mai farlo, dobbiamo arrivarci direttamente, questo è il principio della presenza incarnata.
Dobbiamo andare sotto la superficie dove la consapevolezza è incarnata, perché è lì che è diretta, non c’è distanza, e’ sensibile, siamo vulnerabili, i corpi sono esperienze sensoriali.
Ancora una volta parlo di presenza incarnata che non riguarda nello specifico l’ anatomia, ma la sensazione stessa di avere un corpo, di essere in un corpo. Potrebbe trattarsi di un senso di calore, pressione, agitazione, chiarezza, stabilità o apertura.
Oggi desidero presentare alla vostra attenzione le qualità della buona volontà. La volontà non è malata e non è causa di malattia. La malattia è tutto ciò che distrugge, corrode, corrompe, nasconde le ferite, incolpa, giudica, tutto questo è malato. Dunque, la cura e’ la non partecipazione.
Sei una seccatura, arrivi sempre in ritardo, non sei abbastanza bravo come meditante, non sei abbastanza brava come essere umano, come madre, padre, qualunque cosa sia. Cerca di migliorarti, cosa stai facendo? Vi sembra utile questo tipo di giudizio? Da dove vengono questi standard? Chi li ha inventati? Chi ha la misura esatta per decidere chi sia abbastanza bravo? Cosa ci misura? Ciò che ci misura ci mette in una scatola, in una categoria. Invece le qualità della benevolenza sono definite incommensurabili, non misurabili.
Non voglio mettervi contro gli standard in generale, neppure contro lo standard astratto in base al quale non siete accettati. Si tratta della mente che misura, ma cosa si può misurare? Si può misurare la lunghezza di questo bastoncino, non è vero? E la verità si può misurare?
Quanto è lunga la tua verità? Hai una verità corta o una verità grassa?
Quanto è lunga? Quanto è grande? Quanto è lunga? Questi non sono valori reali, non sono misurabili in quel modo. Perciò ogni volta che facciamo un’esperienza ci immergiamo in essa con la qualità del non-confronto e non sulla base di qualche standard astratto. In questo modo è possibile dimorare nella verità con chiarezza, essa ci ispira, ne proviamo gioia. Quando sperimentiamo ciò che è schiacciante, ciò che turba, che è dannoso, allontaniamocene, e’ questa l’unica misura da prendere.
A cosa dedicarsi, da che cosa ritrarsi e non prestare attenzione, cosa valorizzare? Porsi queste domande e’ importante, in quanto siamo un sistema dinamico e di conseguenza qualsiasi cosa scegliamo per la nostra attenzione crescerà. Un po’ come l’energia di un vortice che ruotando intorno a se stessa gradualmente lo fa aumentare, noi funzioniamo allo stesso modo. Perciò se continuiamo ad introdurre ciò che è buono, sincero, bello crescerà, al contrario ciò che è doloroso, giudicante, ostile inizierà a diminuire.
Anche il nostro cervello funziona così. Ci sono delle connessioni sinaptiche associate alla compassione e alla gioia, continuando ad esercitarle il cervello cresce in quella direzione in virtù della sua plasticità.
Non siamo qualcosa di fisso come una macchina, bensì un organismo vivente. Continuate ad alimentare certe energie e parti del vostro cervello inizieranno a cambiare, seguiranno quelle tracce, mentre quelle meno attivate diminuiranno.
Si tratta di neurologia e tutto ciò è di fondamentale importanza. Come esseri viventi siamo costantemente in relazione, siamo un’esperienza relazionale.
Chitta, la consapevolezza, quando fa un’ esperienza manifesta attraverso la vista, il suono, il pensiero ed entra in relazione con qualcosa, può essere eccitata oppure indifferente, ha una sorta di risonanza. Possiamo immaginare chitta simile ad un lago, se facciamo cadere anche una sola foglia rabbrividisce.
La nostra esperienza è simile ad un sasso quando viene gettato nel lago, poiché la natura di chitta risuona con l’evento e genera sensazioni, genera ciò che chiamiamo percezione, ossia l’ interpretazione immediata di quello che ci accade. La percezione può essere bella, spaventosa, attraente, in ogni caso è caratterizzata dal fatto di essere improvvisa come un lampo. È in grado di generare anche una risposta che ci indirizza da una parte o dall’altra, oppure all’evitamento. Ecco cosa fa chitta nel suo stato manifesto, nella sua forma di condizione attiva.
Ci può anche accadere di essere consapevoli di qualcosa, eppure la nostra risposta non produce nessun effetto.
Se vi trovate fuori sotto la pioggia, non è certo piacevole, fa freddo, ma alla pioggia non importa se vi piaccia o no. Allo stesso modo dopo un’esperienza spiacevole vi chiudete e andate avanti. Abbiamo questa capacità di rimuovere, in parte, le sensazioni dolorose o di ritrovarci in uno stato irritabile e ciò potrebbe anche apparire naturale per molti di noi. Il più delle volte riusciamo per mezz’ora, venti minuti o dieci minuti ad evitare la pioggia, il freddo, la neve e a trovare un riparo.
In particolare chitta si adatta molto agli altri esseri, agli altri esseri umani, e’ profondamente influenzata dalle altre persone. Questo significa essere un mammifero, essere nato nel corpo di qualcun’altro e cresciuto insieme per molti anni; ne siamo inevitabilmente condizionati.
Perciò la nostra natura è caratterizzata dal fatto di essere condizionabile.
Gli altri ci lodano, ci disapprovano, ci ricompensano, ci puniscono e noi ne siamo molto influenzati, non vogliamo essere puniti o disapprovati. Al contrario desideriamo essere apprezzati, anche se, ovviamente, ciò non è sempre possibile. Un’altra cosa che può verificarsi, forse ancora più dolorosa della punizione, è l’ esclusione, e questo accade quando qualcuno ci fa capire che non contiamo, che non riusciamo a far nulla.
Questi sono giudizi e atteggiamenti che ci fanno sentire tagliati fuori, smarriti, perché a livello relazionale abbiamo bisogno di qualcosa con cui interagire e quando non c’è, sorge la sensazione di essere stati esclusi, di non essere stati visti o ascoltati, di non contare nulla.
E’ questa l’ esclusione ed è molto dolorosa, poiché parte del nostro processo sano consiste nel sentire e nel rispondere e quando lo neghiamo quel senso di relazione viene interrotto e si crea uno stato di isolamento, di ostracismo. Sono situazioni che hanno una forte influenza su chitta.
Ci sentiamo soli, disorientati ed è la cosa peggiore che possa accadere.
E’ come trovarsi bloccati sopra una montagna, avete davanti a voi ancora un lungo percorso e vi sentite stanchi, ma per fortuna siete in gruppo con altri due compagni ed insieme ce la potete fare. E’ vero dovete resistere, è faticoso, i vostri piedi, le vostre gambe in certi momenti si irrigidiscono. Scendendo dalla montagna avete freddo, ma siete in tre, vi sostenete a vicenda e questo vi dà forza. Ad un certo punto i due compagni più in alto fanno cenno di scendere, ma poi dicono: “Non stiamo parlando con te”. Questo è un esempio di una situazione grave, perché si tratta di esclusione e l’esclusione è molto dolorosa. Nella nostra società moderna desideriamo una famiglia, degli amici ‘Kalyanamitta’, ma ci sono anche casi in cui per la maggior parte delle persone in genere la capacità di risposta è limitata. Ad esempio può succedere che stiamo camminando tra la folla e vogliamo superare un centinaio di persone: “Permesso, toglietevi di mezzo”, oppure in macchina suoniamo il clacson. Si fanno queste cose ad un livello di evitamento lieve. Ad ogni modo in queste situazioni anche noi siamo completamente esclusi, mentre è inclusa la nostra capacità di funzionare.
Ti riconosco se fai questo lavoro, altrimenti ti licenzio. Tutto quello che voglio da te è la tua capacità di funzionare, di fare, di conseguenza ci impegniamo, diventiamo una funzione e così almeno sentiamo di valere qualcosa. Le persone sono trascinate a funzionare e diventano davvero un oggetto all’interno di un sistema. Sei il responsabile dell’azienda X , sei l’assistente di Y o la direttrice di Z, ecco cosa sei. Mi interessa solo quella parte di te, tutto il resto non mi riguarda, non portarlo qui.
Viene fatta una specie di parziale esclusione e solo per quella piccola parte stiamo ricevendo una sorta di riconoscimento, ci si impegna davvero molto per essere efficienti.
Ricordo la storia che raccontò un monaco. Il padre aveva lavorato molti anni come dirigente per una divisione di una grande azienda. Non sembrava sentirsi molto bene, tuttavia lui era il direttore e aveva dato il massimo di se stesso, ma inaspettatamente decisero di chiudere proprio quella divisione perché non si facevano sufficienti profitti e così ai dipendenti fu offerto un posto di lavoro in un altro paese. Gli diedero tre settimane di preavviso e quella fu la fine. Una settimana dopo il figlio entrò in cucina e vide il padre appeso al soffitto con una corda. Al suo funerale gli mandarono un mazzo di fiori o qualcosa del genere e tutto finì lì.
Questo è il modo per diventare un oggetto limitato, il cui valore viene attribuito da un altro essere umano che lo può togliere in qualsiasi momento.
La semplice benevolenza, invece, consiste nell’attribuire valore, apprezzare e riconoscere che l’altro non è solo un oggetto insensibile, ma e’ importante. Se sono d’accordo o meno con te è solo un dettaglio.
Ho la sensazione che in molti campi le persone abbiano perso questa qualità di vedere l’altro come un soggetto che prova felicità e tristezza, che si ammala, prova il piacere dell’amicizia o la delusione, ha giornate negative, si arrabbia, proprio come succede a loro. Non sei solo un oggetto che deve corrispondere ai miei bisogni, o peggio ancora, alle esigenze della mia azienda. Prima di tutto sei un soggetto.
Anche a livello politico possiamo avere la sensazione che i nostri governanti si preoccupino seriamente per noi, a volte dicono cose meravigliose sul benessere delle persone, tuttavia in certi casi ascoltando attentamente i loro discorsi verrebbe da pensare: “Oh, sei davvero interessato al benessere della gente o cerchi solo più potere?”
L’ esclusività o l’ inclusione filtrante determinano delle condizioni per essere accettati. Ci sono diversi esempi che pregiudicano il riconoscimento del rispetto e del valore della persona. Pensiamo alle donne che ricevono un salario più basso e sono collocate ad un livello inferiore semplicemente perché non considerate sufficientemente efficienti.
Questo genere di cose si riscontra nella nostra società e negli ambienti di lavoro. Spero che la maggior parte di voi abbia un posto di lavoro migliore rispetto a quello che ho appena descritto.
Ma a volte ci possono essere situazioni molto complesse. Un mio amico mi disse che nell’azienda dove lavorava il consiglio di amministrazione, di cui faceva parte, chiese un aumento dei profitti del 3%. Questo messaggio fu comunicato alla direzione sottostante che propose il 5% per poter avere una maggiore sicurezza di ottenere il 3%. Ai livelli inferiori chiesero un aumento del 7%. Gli operai optarono per il 12%. Ognuno cercava di schiacciare l’ altro per far salire i numeri e soddisfare gli azionisti. Anche da questo esempio possiamo osservare come siano sempre i soldi in primo piano.
In questo sistema il denaro risulta essere preminente, generando il conflitto tra valori e oggetti di valore. Quando gli oggetti di valore diventano più importanti, ci si rende conto che la gentilezza, la benevolenza, la compassione passano in secondo piano, si finisce per misurare l’individuo in termini di prestazioni e sulla base di orari di lavoro talvolta eccessivi. È questo il sistema che abbiamo creato, a che scopo?
Per avere uno stile di vita migliore.
Forse avete capito il paradosso, vero? Avere uno stile di vita migliore in condizioni di stress e magari con dei sensi di colpa in cambio, qualche anello d’oro o qualcosa del genere ed essere esausti, e’ davvero il massimo! Questo tipo di influenza nel mondo non la sentiamo direttamente come ostilità, ma piuttosto come una specie di qualità sostenuta che non offre quella fondamentale benevolenza, quell’empatia necessaria, quella capacità di vedere l’altro e di essere considerati come degli esseri umani. Così le persone finiscono per assumere lo stesso atteggiamento verso se stessi.
Non vediamo la nostra umanità, non la sentiamo, ci giudichiamo in termini di prestazioni od in base a ciò che gli altri potrebbero pensare di noi per via delle nostre azioni, per ciò che stiamo facendo, per quello che possiamo fare e a quale velocità lo facciamo. Agli altri piace se siamo veloci, efficienti e produciamo di più. Di conseguenza iniziamo a sottometterci a questa schiavitù: corriamo perché desideriamo essere bravi ed accettati. È un po’ come raggiungere lo stile di vita ideale, diventare ricchi, ma al contempo sentirsi esauriti.
È strano essere abbastanza bravi, di qualunque cosa si tratti. In realtà tutto ciò che sappiamo è di non avere ancora raggiunto l’obiettivo, in quanto la mente può sempre immaginare che ci sia qualcuno o qualcosa di migliore. Immaginiamo ciò che gli altri potrebbero pensare o dire di noi e poi quel senso di avversione comincia ad avvolgerci come fosse nebbia senza, tuttavia, riuscire a comprendere dove stia esattamente.
Se qualcuno ci ha giudicato negativamente sorge una sensazione di esclusione. Impariamo a negare delle parti di noi. In fondo è solo quel pezzetto che interessa e così iniziamo ad escludere altri aspetti che non giudichiamo positivamente o non troviamo tanto degni ed utili. E per compensare facciamo ogni genere di cose, pensiamo di riempire quel senso di solitudine, di vuoto, d’inquietudine che si manifesta quando si escludono parti del proprio cuore e della propria consapevolezza.
Compriamo ogni tipo di cose per riempire il vuoto di non sentirci all’altezza con l’intento di non provare più quel senso di disagio, eppure sappiamo perfettamente di non uscirne fuori.
Possiamo tornare al corpo e dirci: “Eccomi, sono qui”. Facendo questo lentamente, costantemente, stabiliamo il luogo in cui sentiamo di ricevere un dono, non importa quanto siamo bravi, la presenza incarnata e’ qui per sostenerci. Non importa come stiamo, se siamo buoni o cattivi: siamo qui. Questo è il sacro, ciò che chiamiamo santuario. Non importa dove siamo stati, chi siamo, che cosa possediamo e dove sia; questo terreno non è qualcosa che un altro può darci, se qualcun altro può darci qualcosa, c’è la può anche togliere. Per questo deve essere nostra, data da noi stessi. Non è qualcosa che si ottiene quando siamo bravi, e’ il senso del corpo che percepiamo quando i nostri piedi toccano la terra o il contatto con il cuscino quando siamo seduti; e’ quella particolare sensazione di contatto con una superficie che ci sta sostenendo. Ci sediamo con quello che c’è e qualunque cosa stiamo provando in quel preciso momento va bene, e’ sufficiente usare il nostro senso somatico di radicamento, che ci aiuta a sviluppare la sicurezza e la fiducia in noi stessi senza avere uno standard da raggiungere: sono libero da lode e biasimo, sono libero dalle opinioni che ho su me stesso e da quelle degli altri.
Abbiamo generato un semplice luogo somatico ed è qui che il corpo è utile, perché se guardiamo ad una qualsiasi di quelle psicologie sulla personalità che ci suggerisce come poter essere migliori, oppure a tutto ciò che gli altri pensano o dicono o hanno detto, allora diventa davvero troppo complicato. Ritroviamo semplicemente il corpo, seduti, sentiamo il contatto con la superficie che ci sostiene, questo è lo standard.
Fondamentalmente il senso di avere un corpo che ci contiene consente a qualsiasi percezione e pensiero di esserci e rappresenta il nostro luogo di semplice presenza, dove, invece di reagire, possiamo entrare in contatto con la sicurezza della stabilità.
Stiamo parlando qui di un sistema dinamico, un sistema in cui, se aggiungiamo una goccia dopo l’altra, si inizierà a creare un modello, a stimolare una certa tendenza. Proprio allo stesso modo si è formata la tendenza a sentirsi sbagliati, a disagio con se stessi per non essere all’altezza o in grado di corrispondere alle aspettative degli altri. Pensiamo di dover essere diversi,o peggio ancora, di aver trascorso la vita a fare cose terribili all’età di dieci anni e così ci percepiamo come un cosmo di cattive intenzioni, che si ingigantisce in virtù della proliferazione di statistiche che la mente produce: c’è quello, ho fatto quello, e’ stata lei a dirlo, io non l’ho mai fatto, avrei dovuto essere lì. Creiamo una specie di galassia di pensieri negativi in cui vivere.
E’ possibile dire di no a tutte queste formazioni, rimanendo radicati nel corpo – il nostro posto sicuro – dove nessuno può disturbare. Il corpo inizia a risvegliarsi, a prendere un po’ più di vita. Siamo dei sistemi viventi sensibili, non un oggetto nell’opinione di altri o nella nostra stessa opinione.
Non siamo un oggetto della nostra mente, siamo un soggetto sensibile che sente, respira ed è attento: “Non sto respirando come dovrei”. No, stai respirando bene, va bene così. Il tuo respiro ti tiene in vita, non importa se non è perfetto.
Quindi si tratta unicamente della presenza soggettiva. Forse è una frase su cui si può sorvolare, ma è davvero importante: essere una presenza soggettiva significa che qui c’è solo una qualità e quella qualità sei tu. Non sei un oggetto, non sei considerato come qualcosa che viene misurato e confrontato con qualcos’altro, sei tu a sentire dove sei e nessun altro lo può fare per te. Ci sentiamo esattamente dove siamo. Non sembra molto, vero? Eppure ci sta dando una certa priorità, un’ autorità su noi stessi.
Non sono la persona che tu pensi, poiché ciò che sento viene da me stesso e non dovrebbe essere come quello degli altri. Non è una scelta o un giudizio positivo o negativo di qualcun altro, neppure il confronto con tuo padre o tua madre, è soltanto tuo. Ti sta restituendo a te stesso.
Questo è il grande dono di ritornare a se stessi. Sentilo nel corpo, sii colui che può sentire ciò che è sentito.
Ora, naturalmente, la stessa sensazione ‘vedana’ piacevole o spiacevole va e viene ed invece di aggrapparti alla sensazione, sii colui che può sentire, colui che conosce direttamente quella sensazione senza reagire a quel dolore o a quel piacere che altrimenti si ingrandisce, amplificandosi.
Al contrario puoi semplicemente creare un’apertura attraverso la tua capacità di essere sensibile, perché ogni sensazione in sé e’ variabile, mentre ciò che importa è la capacità di essere, di sentire: e’ chitta che sperimenta la sensazione.
A questo punto siamo entrati nel cuore del linguaggio buddhista quando diciamo: “consapevole della sensazione”. Significa che sei tu con te stesso. La nostra capacità di essere consapevoli di una sensazione e di gioire e’ una qualità misteriosa, innominabile, smisurata. Essere consapevoli di una sensazione ci permette di poterla esprimere a parole e questo ci aiuta ad elaborare e comprendere le sensazioni piacevoli o spiacevoli. Al posto della reazione diventiamo più equanimi, sorge una consapevolezza equanime, più sensibile, più dotata di benevolenza.
Questa è la vera natura di chitta sana e si manifesta tutte le volte che riusciamo ad entrare in quella soggettività, nella presenza soggettiva. In realtà e’ un’altra parola per indicare chitta, la consapevolezza. Riportiamo l’attenzione a quella presenza soggettiva semplicemente sostenendola come consapevolezza senza lasciarla cadere e se la lasciamo cadere, la raccogliamo di nuovo. Questo ci permette di essere piuttosto che reagire e di poter giungere a qualcosa che inizia ad accadere da sola.
La natura della presenza soggettiva, della consapevolezza, di chitta quando sperimenta ciò che si manifesta è la benevolenza. Purtroppo la maggior parte delle volte siamo inclini ad avvelenarci, sebbene non ci piaccia quando lo facciamo.
Nella parabola dell’esempio della sega, il Buddha si rivolge ai monaci esortandoli a non lasciare che la mente sia travolta dall’odio, anche nel caso estremo in cui fossero catturati da dei banditi e tagliati a pezzi con una sega. Dovrebbero, al contrario, esercitarsi a nutrire pensieri intrisi di gentilezza amorevole. Egli intende dire che se lasciamo la mente dimorare nell’ odio, allora non siamo davvero riusciti a seguire i suoi insegnamenti. Dato che è già molto doloroso avere il corpo fatto a pezzi, a che scopo, dunque, aggravare la sofferenza aggiungendo ulteriore odio? Se qualcuno ci fa del male ci sentiamo infelici, ma molto probabilmente non sarà la nostra infelicità ad essere una sua preoccupazione. Perciò il primo passo per proteggersi e’ di non lasciare che la mente sia contaminata dall’ ostilità dell’altro.
Questa parabola insegna, inoltre, che c’è in noi anche una propensione positiva. Raffigura un esempio di dolore fisico, ma la sofferenza psicologica con il senso di colpa, il biasimo, l’esclusione e’ spesso peggiore, in quanto abbiamo la capacità di autogenerarla. E dunque non permetto alla mia mente di accedere alla sconfitta, al senso di amarezza che comporta, non permetto che tutto ciò avvenga. Questa è una scelta possibile. Possiamo analizzare questo tipo di esperienza con un esempio vivente: qualcuno ci sta disapprovando, ci dice che dobbiamo fare questo, non dovremmo fare quello, che non ci presentiamo mai quando serve, non ci giriamo mai, non siamo bravi come lei o cose del genere. Non dobbiamo lasciare che la mente entri in un mondo malato.
Invece di pensare che qualcosa sia sbagliato in noi, possiamo pensare che quella persona sia infelice, triste, forse ha un problema; questa è la risposta più adatta per non sentirci travolti. In questo modo e’ possibile invertire la tendenza dell’ avversione degli altri non adottando il loro programma di ostilità nei nostri confronti, per non essere abbastanza bravi o per aver fatto quella cosa che non dovevamo e che ora ci fa provare rimorso.
Se senti di non potercela fare come gli altri, fermati e riprova il giorno successivo. Tutti commettono errori.
Ai miei tempi in Inghilterra gli studenti che non avevano molti soldi svolgevano il lavoro di fattorino in condizioni precarie durante il periodo natalizio. Uno studente, che accettò questo tipo di mansione per racimolare qualche soldo, doveva iniziare il suo turno alle sei di mattina. Il primo giorno fu puntuale e dopo il lavoro ritornò al suo appartamento soddisfatto, quello era stato per lui un grande giorno. Anche il giorno successivo si alzò in orario ed arrivò puntuale al posto di lavoro. Era contento per quello che stava facendo. Il terzo giorno, però, quando ritorno’ a casa, si rilassò, fumò un po’ di marijuana o qualcosa del genere, pensando: “Oh, e’ davvero bello, sto proprio bene”, ma il mattino seguente non sentii la sveglia e si alzò tardi. Alle nove si precipitò al lavoro, pensando che a tutti poteva succedere di dormire fino a tardi almeno una volta e che non sarebbe stato un problema. Ma quella fu la fine, venne licenziato. In realtà fu considerato il classico studente fannullone che fuma. E il giovane rispose: “Ok, e’ andata così, grazie” senza reagire.
Pur non entrando nei dettagli, è fondamentale questa risposta con cui si rifiuta l’ondata di ostilità senza reagire al contraccolpo che sentiamo venirci addosso. Si può accettare il rimprovero, ma non abbiamo bisogno anche della rabbia. Non importa l’ informazione ricevuta, non abbiamo bisogno della minaccia.
Potete praticare in questo modo per il vostro bene. E quando rallentate e vi stabilite nel corpo, probabilmente incontrerete dei luoghi in cui non sentite proprio una voce o un messaggio verbale, ma qualcosa che si sta lamentando, dovete solo ascoltare. Com’è questo blocco qui? E dov’è la mia piccola parte di radicamento? Senti soltanto e rimani con ciò che c’è. Oltre a questo posso sentire anche l’ addome? Posso espirare?
Incoraggiamo la qualità della gentilezza che ci sostiene nel corpo. Può essere utile l’esercizio di stabilire la benevolenza quando sedete; trovate un luogo sicuro, semplicemente immaginando intorno a voi la qualità dell’accettazione, della gentilezza, proprio come se foste seduti su di essa.
Potrebbe essere generata da qualcuno in un momento in cui ve l’ ha effettivamente dimostrata. In questo caso potete indugiare solo sulle parole ispirate alla benevolenza che vi sono state dette in quel momento.
Cogliete il segno, soffermatevi su di esso, potete anche lasciare che la persona svanisca dal contesto, cercando di ricevere la sola qualità di essere riconosciuti in modo gentile, dimorando in essa.
E ogni volta che la vostra mente pensa che dovreste fare qualcosa per ricambiare, non fatelo, ricevete soltanto. Se pensate di essere solo una seccatura, ricevete semplicemente la benevolenza. Considero che sia una delle gioie più grandi permettere a qualcuno di esprimere benevolenza. Il cuore è leggero. È veramente buono.
Ci sono tante cose che io non riesco a fare. Sono quarant’anni che non riesco a ricordare i canti, ma una cosa in cui sto migliorando è offrire compassione. Penso che ci siano delle probabilità che rimarrà con me e migliorerà man mano che supero il mio imbarazzo, il nervosismo, sentendo come posso essere utile.
Lascia andare, offri solo benevolenza: soltanto la qualità di un cuore puro nei confronti di un altro o di te stesso, delle persone del passato, del presente, delle persone intorno a te, rimanendo semplicemente con il senso di offrire benevolenza senza preoccuparti se ne hanno veramente bisogno; non sarà sprecata. Se sembra che non ne abbiano bisogno, credetemi, ne avranno lo stesso bisogno. Ma se veramente non ne hanno
bisogno, avrà lo stesso un effetto positivo. Lasciala semplicemente permeare l’atmosfera, potrà essere raccolta. Non preoccuparti se le persone la meritano o no. È davvero spiacevole pensare quale sia il nostro merito e se abbiamo fatto abbastanza bene.
E’ proprio la gentilezza amorevole ad abbracciare tutto, non perché siamo ok. Non dovremmo misurare la benevolenza in base al merito, pensando: “Le ho dedicato tre minuti di benevolenza”, non misurarla e non preoccuparti dei risultati. “Ah, ho sprecato la mia benevolenza per lei, ora la terrò per me stesso”. Questo è il tipo di misurazione delle cose che si fa. Due monaci, che avevano attraversato un periodo difficile tra loro, si erano comportati proprio così. Poi uno di loro decise di andarsene e l’altro monaco era convinto di aver sprecato la sua metta con quel ragazzo, perché si aspettava un risultato.
Non aspettatevi risultati, siate solo grati. Se non offrite benevolenza, cos’altro potete offrire? Indifferenza? “Non ti noto nemmeno”. È davvero la cosa migliore da fare?
Questo è il mio dono, lo posso fare, mi fa star bene. Aiuta davvero perché la natura della benevolenza, letteralmente, abbraccia tutto. Quindi ogni volta che la generate verso un’altra persona risuonerà dentro di voi.
Non possiamo sentirci infelici e generare benevolenza, non è vero? Perciò se iniziamo a praticarla verso qualcun altro eleva il cuore, poiché il cuore non è dualistico, bensì olistico. Così siamo in grado di generare una sfera olistica di benevolenza. Quando lo faccio, anche il mio essere riceve quell’energia, è il mio dono. Questa è la qualità della benevolenza, un’energia che riempie il vostro sistema nervoso, cambia la chimica del corpo e lo sentite. La stai offrendo ad un altro e gli sei grato per averti permesso di offrirgli benevolenza. La presenza di altri nel tuo spazio non ti disturba, al contrario, è qualcosa che può aiutare a migliorare quello spazio personale. Queste diverse forme di benevolenza si differenziano: la gentilezza è un tipo di nutrimento che vede l’altro nella sua soggettività ed è così bello aggiungerci qualcosa di benefico. E la soggettività fa questo, quando un soggetto entra in sintonia con un altro soggetto.
Tutto ciò fa parte del processo di essere un essere umano autentico.
Quando vedi davvero l’altro come soggetto, e non solo come proiezioni, sorge questo tipo di risposta e quando vedi l’altro soffrire, vedi il soggetto soffrire, allora c’è una sensazione di voler comprendere, esserne partecipe. Questa si chiama compassione. Quando osservi una creatura, un animale che soffre, puoi notare che non è un oggetto, non è solo carne che si muove, non è solo una creatura che abbaia, è un essere che sperimenta perdita e dolore, proprio come succede a te. Con la compassione posso stare con tutto questo anche se non riesco necessariamente a cambiarlo, semplicemente c’è la volontà di essere partecipe. Si chiama compassione ed e’ incline a comprendere il dolore degli altri. Una bella qualità che rappresenta uno dei nostri grandi doni.
Mudita significa: vedo la tua gioia, la tua gioia mi fa stare bene. Invece di provare dispiacere perché tu ti stai divertendo, condivido la tua gioia.
“Come mai tu hai avuto successo, mentre io non ci sono riuscito?”
Questo è un pensiero che ci separa. Con mudita, invece, vedo la tua gioia ed essa risuona in me, sono contento per te, è fantastico!
In particolare con mudita non vedo soltanto la tua felicità, ma vedo anche la tua verità, la tua integrità, la sento qui e mi sta dando potere, con mudita ne gioisco.
In questo modo godiamo dei punti di forza reciproci: la resilienza, la tenacia, le meravigliose qualità che gli esseri umani manifestano per andare avanti. C’è qualcosa che si può apprezzare in ogni essere umano.
L’equanimità ci fa percepire gli alti e bassi della vita come parte della natura: le sue onde, vedana, ci portano su e giù ogni volta che abbiamo successo o sbagliamo. Non si tratta di indifferenza, bensì è la capacità di non reagire alle fluttuazioni e di estendere la consapevolezza a tutto in
un terreno stabile.
A volte è proprio questo di cui abbiamo bisogno, non abbiamo davvero bisogno di risultati, di risposte, di correggere, abbiamo solo bisogno di qualcuno che dica: “Sei qui, ti sto offrendo stabilità”. Così non ci sentiamo in balia delle onde, degli alti e bassi dell’esperienza. Questi sono i grandi doni che possiamo offrire a noi stessi, agli altri e alla nostra esperienza quando ci troviamo su un terreno stabile.
Posso stare con ciò che mi sta accadendo senza lasciarmi travolgere dagli alti e bassi. L’effetto significativo della calma e della centratura consiste nello stare con ciò che c’è senza lasciarsi trasportare dalle onde delle sensazioni. L’equanimità include tutto.
Queste sono le qualità da ricordare e spero che qualcosa vi sia rimasta particolarmente impressa. Nei prossimi giorni farò riferimento a questi temi e, naturalmente, vi incoraggio a tenerli presente e a metterli in pratica.
Rappresentano per la vita dei veri ricostituenti e li offro alla vostra riflessione.