
Erano milleduecentocinquantuno, nel 1931, i professori universitari italiani. Di essi, solo una quindicina rifiutò di prestare il Giuramento di fedeltà al Fascismo, perdendo così, in un colpo solo, cattedra, liquidazione e pensione. Tra questi, Piero Martinetti, ordinario di filosofia a Milano; si dimise con una lettera che dovrebbe essere letta a scuola, come quelle di Cicerone ad Attico o quella di Machiavelli a Francesco Vettori. Si ritirò in campagna, a Spineto di Castellamonte, con la sorella, i suoi libri e i suoi gatti. Sulla targhetta del cancello fece scrivere “Piero Martinetti – Agricoltore” ma continuò, con i suoi scritti, ad essere una delle voci più alte della cultura italiana del ‘900. Oggi quella casa è un Museo ed il Dipartimento di Filosofia della Statale di Milano porta il suo nome.
I gatti, dicevamo. In un appunto del 26 maggio 1935, scriveva: “Questa notte verso le 3 è morta, dopo quindi giorni di malattia, la povera gattina grigia. Era il povero essere caro che mi seguiva per la vigna, che mi faceva compagnia, qui sulla poltrona, nello studio, per lunghe ore. Nei suoi occhi riposavo i miei, nel suo essere caro io sentivo un conforto, come in nessun essere umano.”
Nella vita e nel pensiero di Martinetti gli animali occupano un posto centrale e in varie sue opere cerca d’invocare almeno un po’ di pietà nei loro confronti; pietà esigita da una precisa istanza filosofica, prima ancora che da un moto del cuore. Proprio quella pietà che un altro filosofo condannato e reietto, Baruch Spinoza, aveva considerato un sentimento da donnicciole, indegno di un animo virile. La cognizione del dolore non basta ad immunizzarci dal rischio d’infliggerlo ad altri, evidentemente.
“La psiche degli animali” è tra quelle opere. Prendendo le mosse non da assiomi filosofici, ma da una serrata ricognizione della letteratura scientifica (come il Positivismo dell’epoca esige) Martinetti ne accoglie le evidenze e le trasporta sul piano metafisico, per confermare la propria filosofia, che si pone innanzitutto come una concezione monista, antitetica quindi al dualismo sia scolastico che cartesiano. Gli animali non sono macchine, “materia bruta”, ma sono esseri non solo senzienti, ma dotati di una vera e propria vita psichica. E non vale l’obiezione che non potremmo mai averne contezza: neanche di quella degli altri esseri umani ce l’abbiamo, e possiamo solo conoscerla per analogia, dai loro movimenti e dai loro atteggiamenti esteriori, simili ai nostri.
Né basta a spiegarla, questa vita psichica, il semplice istinto. Perché i movimenti automatici ed irriflessi presuppongono una lunga fase di sperimentazione e di apprendimento, e solo dopo di essa sono divenuti tali; infinite generazioni che quel comportamento hanno dovuto pensarlo, prima di poterlo trasmettere ai discendenti. D’altronde, basta pensare a quanto d’istintivo vi sia anche nei comportamenti umani, per rendersi conto di quanto sia assurdo postulare due diversi principi, separati ed antitetici, per l’agire degli animali e per quello degli esseri umani.
Come in altre sue opere, anche in “La psiche degli animali”, alla fine la filosofia di Martinetti diventa preghiera, e profezia. “Giova perciò sperare che, quando penetrerà in noi un più vero concetto della natura dell’animale e dei suoi rapporti con noi, esso aprirà anche al nostro occhio spirituale un regno dello spirito più vasto che il regno umano: allora gli uomini riconosceranno che vi è tra tutte le creature un rapporto ed un’obbligazione vicendevole ed estenderanno, senza sforzo, a tutti gli esseri viventi quei sensi di carità e giustizia, che ora considerano dovuti soltanto agli uomini”; sono le parole con cui la conclude.
I gatti, dicevamo. In un appunto del 26 maggio 1935, scriveva: “Questa notte verso le 3 è morta, dopo quindi giorni di malattia, la povera gattina grigia. Era il povero essere caro che mi seguiva per la vigna, che mi faceva compagnia, qui sulla poltrona, nello studio, per lunghe ore. Nei suoi occhi riposavo i miei, nel suo essere caro io sentivo un conforto, come in nessun essere umano.”
Nella vita e nel pensiero di Martinetti gli animali occupano un posto centrale e in varie sue opere cerca d’invocare almeno un po’ di pietà nei loro confronti; pietà esigita da una precisa istanza filosofica, prima ancora che da un moto del cuore. Proprio quella pietà che un altro filosofo condannato e reietto, Baruch Spinoza, aveva considerato un sentimento da donnicciole, indegno di un animo virile. La cognizione del dolore non basta ad immunizzarci dal rischio d’infliggerlo ad altri, evidentemente.
“La psiche degli animali” è tra quelle opere. Prendendo le mosse non da assiomi filosofici, ma da una serrata ricognizione della letteratura scientifica (come il Positivismo dell’epoca esige) Martinetti ne accoglie le evidenze e le trasporta sul piano metafisico, per confermare la propria filosofia, che si pone innanzitutto come una concezione monista, antitetica quindi al dualismo sia scolastico che cartesiano. Gli animali non sono macchine, “materia bruta”, ma sono esseri non solo senzienti, ma dotati di una vera e propria vita psichica. E non vale l’obiezione che non potremmo mai averne contezza: neanche di quella degli altri esseri umani ce l’abbiamo, e possiamo solo conoscerla per analogia, dai loro movimenti e dai loro atteggiamenti esteriori, simili ai nostri.
Né basta a spiegarla, questa vita psichica, il semplice istinto. Perché i movimenti automatici ed irriflessi presuppongono una lunga fase di sperimentazione e di apprendimento, e solo dopo di essa sono divenuti tali; infinite generazioni che quel comportamento hanno dovuto pensarlo, prima di poterlo trasmettere ai discendenti. D’altronde, basta pensare a quanto d’istintivo vi sia anche nei comportamenti umani, per rendersi conto di quanto sia assurdo postulare due diversi principi, separati ed antitetici, per l’agire degli animali e per quello degli esseri umani.
Come in altre sue opere, anche in “La psiche degli animali”, alla fine la filosofia di Martinetti diventa preghiera, e profezia. “Giova perciò sperare che, quando penetrerà in noi un più vero concetto della natura dell’animale e dei suoi rapporti con noi, esso aprirà anche al nostro occhio spirituale un regno dello spirito più vasto che il regno umano: allora gli uomini riconosceranno che vi è tra tutte le creature un rapporto ed un’obbligazione vicendevole ed estenderanno, senza sforzo, a tutti gli esseri viventi quei sensi di carità e giustizia, che ora considerano dovuti soltanto agli uomini”; sono le parole con cui la conclude.
Michele Scotto di Santolo