Una famiglia speciale, Lithang, 1999-2000

Voci cantilenanti diffondono nel giardino dell’abitazione del medico tibetano Chona Yishe. Provengono da un alloggio che si affaccia su di esso. Varco la soglia senza far rumore e mi dirigo verso lo studio di Lhaso Dorje. La cantilena è ora più forte. In un locale ben illuminato, due bambini, maschio e femmina, siedono a gambe incrociate sul pavimento di legno. Leggono insieme. Un testo religioso in lingua tibetana è appoggiato sulle loro ginocchia. Al mio passaggio il maschio, per un istante, alza lo sguardo e sorride. E’ una cantilena veloce, simile a quelle che si odono nei templi durante le funzioni religiose. In altre occasioni, avevo osservato i due giovani mentre scrivevano nella loro lingua, assistiti dal padre o dalla madre. I due bambini non frequentavano la scuola, erano i genitori a occuparsi della loro educazione. I risultati sembravano eccellenti.
Lhaso Dorje mi aspetta nel suo studio, un locale arredato in maniera semplice.
Vedendomi, si alza per salutarmi e m’invita a sedere accanto a lui. L’artista è pronto per iniziare il lavoro che ho commissionato: la realizzazione di una thangka medica, dedicata alla rappresentazione delle piante medicinali. Non era stato facile convincerlo ad accettare quel lavoro. Era la prima volta che Lhaso Dorje si cimentava su quella tipologia di soggetto. Temeva di non essere in grado di produrre un dipinto di buona qualità.
Di quell’uomo non era stata l’abilità dell’artista ad avermi colpito, ma la personalità e la condotta di vita. Di corporatura minuta, con un viso ben proporzionato, Lhaso Dorje era una persona di poche parole, sensibile, colta e raffinata e, allo stesso tempo, franca e determinata. Emanava pace e serenità ed era animato da una spontanea propensione ad aiutare il prossimo e da una gentilezza disinteressata. Un numero esiguo di persone che ho conosciuto nel mondo tibetano condivide quelle qualità.
Atron, la moglie, era una donna cordiale, aperta e sensibile, sempre pronta allo scherzo, ma anche energica e instancabile. Aveva il tipico viso delle donne del Tibet orientale: lineamenti fini, zigomi alti, naso leggermente aquilino, occhi scuri e penetranti, lunghi capelli neri che portava raccolti in trecce. I due figli, fratello e sorella, di sette e otto anni, vigorosi, svegli e aperti, avevano ereditato la gentilezza e la serenità dei genitori.
Quella famiglia si stava spostando verso occidente. Il loro era un vero e proprio pellegrinaggio che li avrebbe portati, in circa tre anni, a Lhasa, la capitale tibetana. Viaggiando, si fermavano nelle cittadine e nei villaggi dove avevano amici, come Chona Yishe, che potessero ospitarli. In alternativa, prendevano in affitto un alloggio. Grazie alla sua professione, Lhaso Dorje non avevano problemi economici.
Essendo quel viaggio un pellegrinaggio, dedicavano una parte della giornata alla pratica religiosa. Oltre allo studio dei testi buddhisti, genitori e figli, ogni giorno, percorrevano, prosternandosi, il sentiero che correva intorno al complesso monastico. Una pratica di purificazione. Com’è d’uso tra i pellegrini, indossavano una specie di grembiule di gomma spessa, per attutire l’impatto del corpo con il terreno. I quattro fedeli partivano nel pomeriggio. Lhaso Dorje e Atron, più veloci, in testa, mentre i figli seguivano a distanza. Ognuno procedeva in silenzio, con
concentrazione e dedizione.
Provavo ammirazione per quella famiglia, un gruppo solido e unito, composto da persone che condividevano nobili principi e che erano legate alle proprie tradizioni.

Foto: Lhaso Dorje al lavoro durante la realizzazione della thangka dedicata alle piante medicinali, Lithang 1999