“Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte

corporale, da la quale nullu homo vivente po’

scappare”

[San Francesco d’Assisi]

 

Le regioni montuose ci consentono di nutrirci di ampi spazi in cui sono ancora poco distruttive le impronte umane, di percepire la potenza della terra e dell’acqua in pendii rocciosi, ghiacciai e torrenti impetuosi, di attingere alla bellezza degli alberi nelle moltitudini che costituiscono immensi boschi. Ad uno sguardo panoramico cogliamo le sfumature dei verdi e talvolta qualche forma che si distingue dalle altre.

Viene facilmente da pensare al respiro della terra, all’interscambio di respiro fra noi e gli alberi, alla forza della vita che li spinge verso l’alto, per accaparrarsi la luce. Eppure, addentrandomi nei boschi delle mie lunghe camminate estive, uno degli aspetti affascinanti che ho toccato è stato la bellezza degli alberi morti e il potenziale di riflessioni che porta con sé.

In questo tempo in cui più che mai l’umanità esorcizza la paura della morte con un folle senso di onnipotenza e controllo, ho trovato interessante la lezione degli alberi, in cui osservare quella morte corporale da cui, per parafrasare il Cantico delle creature, nessuna creatura vivente può scappare.

Da essere umano non posso dire se l’albero dia un consenso, se soffra, come immagino, quando viene per esempio sradicato all’improvviso, o quando un temporale spezza uno dei suoi rami. Possiamo mettere in conto che l’albero soffra quando viene lesa la sua integrità fisica, o anche solo quando sia sottoposto a minaccia. Eppure gli alberi di montagna ci danno un mirabile esempio di resa, alla gravità, agli agenti atmosferici, ad una frana, che talvolta li porta a continuare la loro vita in luoghi e soprattutto in posture inusuali. I soggetti in questione sembrano fare del loro meglio per restare ancorati alla terra e per ritrovare la verticalità possibile. Altre volte l’impatto dell’evento è troppo grande perché possa essere ammortizzato e l’albero muore, continuando, dal mio punto di vista, a emanare bellezza, continuando ad essere parte di un mondo naturale in cui, come la fisica ci insegna, niente si crea e niente si distrugge.

La non resistenza alla morte fa sì che la vita continui, seppur in altre forme.

In un bosco di conifere mi è capitato di incontrare il tronco di un albero morto che era stato colonizzato da piantine fiorite, tali da renderlo una meravigliosa fioriera naturale.

Ed ora ecco un’altra immagine colta nel bosco: un vecchio abete sradicato da chissà quale evento naturale e sdraiato, col tronco sospeso e appoggiato ad un altro albero. Il tronco, ormai lavorato dal tempo e completamente scortecciato, aveva assunto un colore argenteo lucente al sole, e i rami, anch’essi dello stesso colore e avvolti dalla stessa luce solo un po’ più frammentata, parevano tanti raggi protesi tutt’intorno: un’opera d’arte.

Anche le radici, talvolta immense e riccamente ramificate, presentano le forme più strane ed evocative di animali e bizzarre creature, attirando l’attenzione di camminatori e cercatori.

Tutti questi esseri, terminata la loro propria esistenza, diventano dimora per insetti e piccoli animali, e lentamente, in un graduale processo di disaggregazione, tornano alla madre terra che li ha generati, come nutrimento per la terra stessa. Nell’osservare ciò si percepisce la ciclicità della vita e anche l’inevitabilità di questa ciclicità, fatta di espansione e contrazione, che si susseguono come nel respiro, come nell’alternarsi delle stagioni.

E’ appena iniziato l’autunno, che prepara alla “piccola morte” invernale della natura. Ci invita ad essere attenti ai segnali di cambiamento, ai verdi delle foglie che volgono al giallo, al rosso, al marrone, attenti allo spogliarsi degli alberi, alle ore di buio che prendono il sopravvento su quelle di luce. Siamo anche noi parte di questa natura che va verso una fase di quiete prima della rinascita primaverile. Mettiamoci in ascolto delle risonanze, delle emozioni che muove in noi. Proviamo a sintonizzarci, almeno nel tempo libero dal lavoro, con il nostro corpo che, seguendo ritmi ancestrali, rallenta preparandosi all’inverno. Concediamoci di sperimentare, anche solo per tempi brevi, l’abbandono ad un’energia che un po’ si sopisce e prepariamo il nostro terreno interiore all’inverno, come i Celti facevano coi campi nel periodo della festività di Samonios, quando si assottigliava il confine che divideva la terra dei vivi da quella dei morti.

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