Ascoltami, c’è voluto

mezzo secolo di vento

per mettere insieme

quello che ti sto

dicendo.”

Franco Arminio


La poesia di Franco Arminio mi risuona come la voce dell’abete rosso che, piantato molti anni fa in occasione della festa degli alberi, è cresciuto accanto al fienile collinare dell’antica casa di famiglia.

L’abete rosso è in realtà noto a tutti noi, essendo il nostro “albero di Natale”, che in questo periodo ritroviamo spesso addobbato e illuminato, in modo più o meno rispettoso della sua natura, o evocato nella sua forma quando riprodotto nei materiali più disparati. Come riporta Jacques Brosse nell’affascinante libro “Storie e leggende degli alberi”, l’abete rosso presenta una cima appuntita, aghi scuri e pungenti e una forma “rigorosamente geometrica”, che mantiene per tutta la vita. Ha una corteccia a scaglie rossicce, “ramoscelli che formano dei drappeggi” e lunghe pigne pendule. Nello stesso testo si legge che nell’Europa settentrionale era considerato “l’albero della nascita” e riservato al primo giorno dell’anno, “il giorno in più del solstizio d’inverno nel Calendario degli alberi”, quello della nascita del Bambino Divino, cioè del Sole. I cristiani lo identificarono con Cristo, collocandone la nascita nella notte fra il 24 e il 25 dicembre. Ecco come probabilmente è diventato il nostro albero di Natale, che nei paesi germanici e scandinavi del Medioevo veniva tagliato nella foresta e poi decorato nelle case con dolci e ghirlande.

C’è voluto quasi un secolo di rami al vento, al sole e alla pioggia, quasi un secolo di radici nella terra fertile della collina per rendere quell’abete rosso, a me così familiare, un albero maestoso, testimone silenzioso di più generazioni, capace di raccontare storie di quel paesaggio che volge ad occidente e della mia famiglia. E’ una voce che in questo periodo dell’anno sembra farsi più forte, connettendomi in modo particolare alle radici familiari, senza le quali, come mostra la teoria sistemica delle costellazioni familiari di Bert Hellinger, non si vola. E’ un essere che emana bellezza, che talvolta incute timore, un guardiano della casa da osservare con gratitudine e un gigante a cui inchinarsi. Osservare un albero, e per me osservare quel particolare possente albero, ci ricorda che la nostra nascita presuppone una lunga storia di vita tramandata, simboleggiata dalle radici, e che crescere richiede di lasciar scorrere nutrimento da quelle stesse radici, affinchè giunga forza ad alimentare il nostro fluire con la vita.

Ripensando all’abete rosso, che per me è l’”albero degli antenati”, mi torna in mente Eywa, l’albero delle anime del film Avatar, capace di connettere con i defunti, consentire il passaggio di conoscenze e capace anche di curare, proprio in virtù della ristabilita connessione con gli antenati. E’ l’albero a cui il popolo Na’vi si rivolge con devozione, rispetto e umiltà.

Abbiamo noi un albero che possiamo chiamare il “nostro” albero degli antenati? Siamo capaci di cercarlo, immaginarlo, rappresentarlo? Possiamo, almeno interiormente, inchinarci ad esso e alla vita giunta fino a noi?

Quando vi inchinate di fronte all’esistenza in totale umiltà, l’universo si inchina a voi e si mette al vostro servizio.” Mata Amritanandamayi (Amma)

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